Perché il Governo non vuole il salario minimo in Italia: le criticità

Oggi scopriamo il perché il Governo italiano non vuole il salario minimo, esistono delle criticità ed è molto importante approfondire l’argomento e cercare di scoprire qualcosa in più.

Che cos’è il salario minimo? Nella definizione più diffusa, è una soglia oraria di retribuzione fissata per legge al di sotto della quale non si può scendere, indipendentemente dal settore o dal contratto applicato.

giorgia meloni con gli occhiali da sole
Perché il Governo non vuole il salario minimo in Italia: le criticità (ANSA) Corsidieuroprogettazione.it

È uno strumento normativo che molti Paesi europei hanno adottato per assicurare un pavimento retributivo uniforme, con l’obiettivo di proteggere i lavoratori meno tutelati e contenere il fenomeno dei cosiddetti working poor, ovvero persone occupate ma con redditi insufficienti a garantire un tenore di vita adeguato. Il salario minimo legale si affianca, o in alcuni ordinamenti si sovrappone, alla contrattazione collettiva, che continua comunque a stabilire livelli retributivi e inquadramenti professionali specifici.

L’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione Europea a non avere, ad oggi, un salario minimo stabilito per legge. Il nostro ordinamento si fonda su un sistema di contrattazione collettiva nazionale di lavoro (CCNL) che fissa griglie retributive e regole per i vari comparti, con un’ampia copertura tra i lavoratori dipendenti. Nel dibattito politico, alcune forze hanno proposto l’introduzione di una soglia legale — spesso indicata nella cifra simbolica di 9 euro lordi l’ora — per contrastare fenomeni di sottopagamento, precarietà e frammentazione del mercato del lavoro. Le proposte hanno alimentato un confronto serrato tra maggioranza e opposizione, tra parti sociali e mondo delle imprese, e tra giuslavoristi che, da prospettive differenti, hanno messo in luce punti di forza e possibili effetti collaterali.

Perché il Governo non vuole il salario minimo: la posizione di Calderone

A spiegare la linea dell’Esecutivo è stata in più occasioni il Ministro del Lavoro, Marina Calderone. La premessa è che, in un sistema come quello italiano, la retribuzione “adeguata e proporzionata” è garantita dall’articolo 36 della Costituzione e, nella pratica, dalla contrattazione collettiva nazionale, che per il Governo rimane l’architrave del modello. Introdurre un minimo legale, secondo questa impostazione, rischierebbe di produrre diversi effetti indesiderati.

stanza con tante persone
Perché il Governo non vuole il salario minimo: la posizione di Calderone (ANSA) Corsidieuroprogettazione.it

Il primo punto riguarda l’“effetto tetto”: la soglia fissata per legge, pensata come pavimento, potrebbe di fatto diventare un riferimento al ribasso, comprimendo dinamiche retributive che oggi, in molti CCNL, prevedono minimi di ingresso superiori e una varietà di elementi economici accessori (indennità, scatti di anzianità, maggiorazioni, welfare contrattuale). In altri termini, un minimo legale uniforme potrebbe appiattire verso il basso la ricchezza e la complessità delle discipline settoriali, indebolendo la capacità della contrattazione di premiare competenze, responsabilità e specificità produttive.

Secondo argomento: la centralità della rappresentanza. La ministra Calderone ha spesso sottolineato che la larga maggioranza dei lavoratori dipendenti è coperta da CCNL stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative. Per il Governo, la priorità non è introdurre una soglia legale, bensì rafforzare l’efficacia dei contratti “leader”, contrastare i cosiddetti contratti pirata e certificare la rappresentatività di sindacati e associazioni datoriali. In questa chiave, si punta ad arginare il dumping contrattuale attraverso strumenti di vigilanza, ispezione e sanzione verso chi applica trattamenti sotto-standard, estendendo quando necessario i parametri retributivi dei contratti maggiormente rappresentativi.

Terzo elemento: il salario minimo legale non risolve, da solo, la povertà lavorativa. Il Governo osserva che una parte rilevante dei working poor non è povera perché sotto una certa paga oraria, ma perché ha poche ore lavorate, carriere discontinue o part-time involontari. Intervenire solo sulla soglia oraria rischierebbe quindi di non incidere su problemi strutturali come bassi volumi di lavoro, discontinuità occupazionale, produttività ferma e deficit di competenze. Da qui l’enfasi su politiche attive, formazione, incentivi all’occupazione stabile e misure per aumentare la produttività.

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