Feci e urine usate come detersivi: non scherziamo, il loro uso era vero e proprio pane quotidiano

Feci e urine usate come detersivi, non scherziamo davvero perché il loro uso era vero e proprio pane quotidiano.

Una città antica non profumava di sapone: odorava di lavoro. Tra i mestieri urbani più diffusi in età romana c’erano i fullones, gli addetti al lavaggio e alla rifinitura dei tessuti, che impiegavano ciò che oggi considereremmo rifiuti: urina e, in alcune fasi di altre filiere artigiane, anche deiezioni animali.

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Feci e urine usate come detersivi: non scherziamo, il loro uso era vero e proprio pane quotidiano (Corsidieuroprogettazione.it)

Non era una bizzarria: era tecnologia quotidiana. Archeologia, testi antichi e studi moderni concordano nel raccontare una catena produttiva basata su sostanze “forti” perché efficaci, ben prima dell’avvento dei tensioattivi sintetici. A Pompei, Ercolano e in molte città dell’Impero sono state scavate le fullonicae, vere lavanderie industriali. La più celebre, la Fullonica di Stephanus, conserva vasche di pietra in cui gli operai calpestavano i panni immersi in soluzioni di urina e acqua, una tecnica testimoniata anche da iscrizioni e rilievi. Il principio chimico è semplice: l’urina stantia sviluppa composti ammoniacali capaci di sgrassare la lana e “saponificare” le impurità.

Feci e urine nell’antichità

Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia (per esempio ai libri 28 e 35), cita l’urina tra le sostanze utili alla lavorazione dei tessuti e ricorda come i Galli usassero il sapo, una pasta di grassi e cenere, più come cosmetico per i capelli che come detersivo per il bucato, segno che il “sapone” non era il fulcro del lavaggio romano.

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Feci e urine nell’antichità (Corsidieuroprogettazione.it)

Per alimentare questa economia della pulizia servivano volumi importanti di materia prima. In alcune città si predisposero contenitori pubblici dove i passanti potevano urinare; non di rado le fullonicae raccoglievano direttamente dalle taverne. La filiera era talmente rilevante da diventare materia fiscale. L’imperatore Vespasiano istituì il celebre vectigal urinae, la tassa sull’urina. Quando il figlio Tito ne criticò l’odore del denaro così ottenuto, Vespasiano gli avvicinò alle narici una moneta chiedendo se avesse odore: “pecunia non olet”, racconta Svetonio (Vespasiano, 23), un motto diventato proverbiale. Cassio Dione (Storia Romana, 65.14) conferma la misura, attestando il peso economico di ciò che oggi definiremmo “economia circolare”.

L’uso igienico dell’urina, compreso il risciacquo della bocca, è menzionato in tono beffardo da poeti dell’età classica. Catullo (carm. 39) allude all’impiego di urina iberica per lucidare i denti di un certo Egnazio; Marziale gioca più volte sul tema, segno che l’associazione era nota al pubblico. Quanto fosse pratica comune o satira che amplifica usi marginali è materia di dibattito, ma le allusioni letterarie, incrociate con i riscontri archeologici delle fullonicae, dipingono un ambiente urbano familiare con l’odore pungente dell’ammoniaca.

Se nel bucato la protagonista era l’urina, nel mondo della concia il ruolo delle deiezioni — soprattutto animali, come quelle di cane e piccione — era cruciale per la fase detta “bating”, che ammorbidisce le pelli dopo la calcinazione. Fonti tecniche medievali, come la Schedula diversarum artium di Teofilo (XI-XII sec.), descrivono l’impiego di escrementi e urina nella lavorazione del cuoio, pratica che affonda però in radici antiche e prosegue per secoli.

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