La legge dei 183 giorni è un concetto che molti sognatori di una vita all’estero ripetono come un mantra. Tuttavia, questo numero spesso citato con leggerezza nasconde una trappola fiscale.
Oggi parliamo di un aspetto che può avere conseguenze significative sul tuo conto corrente.

La confusione principale deriva dal fatto che i 183 giorni sono menzionati in due contesti differenti: la residenza fiscale italiana e le regole dei trattati contro le doppie imposizioni per il lavoro dipendente. Questa ambiguità porta molti a subire una doppia tassazione o, peggio, a ricevere sanzioni per omesse dichiarazioni in Italia, credendo erroneamente di aver tagliato ogni legame fiscale con il paese una volta partiti.
In Italia, si è considerati fiscalmente residenti se, per la maggior parte dell’anno fiscale (più di 183 giorni), si è iscritti all’Anagrafe della popolazione residente, oppure si ha il proprio domicilio o residenza secondo il Codice civile. Non si tratta quindi solo di una questione di presenza fisica, ma anche di dove si trovano il centro degli interessi vitali, l’abitazione principale e i legami economici.
Chi si trasferisce all’estero a luglio e si iscrive all’AIRE in autunno, per esempio, può essere ancora considerato residente in Italia per l’intero anno, con la conseguente tassazione su tutti i redditi mondiali. Le tie-breaker rules dei trattati internazionali intervengono quando due stati ti considerano contemporaneamente residente, stabilendo quale dei due avrà l’ultima parola sulla tua residenza fiscale.

La regola dei 183 giorni trova una seconda applicazione nell’articolo dedicato ai redditi di lavoro dipendente del Modello OCSE, adottato dalla maggior parte dei trattati internazionali. Secondo questa regola, lo stipendio è tassato nello stato di residenza, ma lo stato in cui il lavoro è fisicamente svolto ha anche il diritto di tassarlo.
Per evitare la doppia imposizione, lo stato di residenza prevale se: la presenza nel paese estero è inferiore a 183 giorni in un anno fiscale, la retribuzione è pagata da un datore di lavoro non residente, e la retribuzione non è a carico di una stabile organizzazione nel paese estero. Se una di queste condizioni non è soddisfatta, lo stato dove il lavoro è svolto ha il diritto di tassare il reddito, indipendentemente dalla durata della permanenza.
Un errore comune è pensare che superare i 183 giorni all’estero elimini automaticamente ogni obbligo fiscale con l’Italia. Questo non è vero se si rimane iscritti all’anagrafe italiana o se il centro degli interessi vitali rimane in Italia. Un altro errore è credere che stare meno di 183 giorni in un paese estero protegga dalle tasse locali: se la busta paga è a carico di una filiale o di una stabile organizzazione in quel paese, la tassazione inizia dal primo giorno.
Inoltre, i nomadi digitali che lavorano per un datore di lavoro italiano da un altro paese possono incontrare richieste di tassazione se superano i 183 giorni di presenza o se si stabilisce una stabile organizzazione del datore nel paese ospitante.