Commissioni elevate, retrocessioni e scarsa trasparenza: così i risparmiatori italiani pagano più della media europea per prodotti di risparmio gestito, spesso senza comprenderne l’impatto reale nel tempo.
L’affermazione che banche e gestori patrimoniali non espongano con sufficiente chiarezza il costo dei portafogli di risparmio gestito non è una provocazione: è supportata da analisi indipendenti e da anni di confronti internazionali. In Italia, i fondi comuni e i prodotti “chiavi in mano” venduti allo sportello hanno costi mediamente più alti della media europea e, in alcuni casi, raggiungono picchi sorprendenti. Il punto è che questo differenziale di costo, apparentemente “invisibile”, erode in modo significativo il capitale del risparmiatore, mentre la remunerazione dei distributori resta sostanzialmente indipendente dalla performance.
Secondo studi citati da operatori indipendenti e rapporti come quelli di Mediobanca e Morningstar, i costi complessivi dei fondi in Italia superano spesso il 2% annuo e arrivano in casi estremi al 6,3%. In altri mercati europei, la spesa media si colloca sotto l’1,5%. A parità di rischio e asset class, gli investitori italiani tendono a pagare di più per ottenere lo stesso prodotto o un prodotto molto simile. Il differenziale non è accademico: su 100.000 euro investiti, una commissione del 2% significa 2.000 euro l’anno; una soluzione a basso costo allo 0,25% costa circa 250 euro. La differenza è di 1.750 euro l’anno, che si riduce a circa 1.250 euro netti considerando imposte e detrazioni, ma che nel tempo si cumula in maniera pesante.
Perché succede? Perché la filiera della distribuzione vive in larga parte di commissioni. Le società di gestione incassano la commissione di gestione; gli intermediari che collocano i prodotti percepiscono retrocessioni e incentivi commerciali. È il cosiddetto “conflitto di interesse di filiera”: chi consiglia il prodotto è pagato dal prodotto stesso.
Questo meccanismo tende a privilegiare ciò che remunera di più, non necessariamente ciò che conviene di più al cliente. La normativa europea (MiFID II) ha aumentato gli obblighi informativi, ma le prassi di mercato e la complessità dei documenti spesso rendono arduo, per il cliente medio, capire davvero quanto paga e perché.
Il vero danno non è solo la spesa annuale, ma l’effetto palla di neve nel tempo. Un esempio intuitivo: ipotizzando un rendimento lordo del 5% annuo per 20 anni su 100.000 euro, con costi del 2% il rendimento netto si riduce al 3% e il capitale finale sarebbe circa 180.600 euro. Con un costo dello 0,25% (rendimento netto 4,75%) il capitale finale salirebbe intorno a 254.000 euro. La differenza supera i 70.000 euro. Non è una previsione, ma illustra il “costo opportunità” delle commissioni alte e perché la trasparenza sui costi non è un dettaglio burocratico.
La documentazione esiste, ma è prolissa, tecnica e non sempre comparabile tra prodotti. La “spiegazione” avviene di frequente in filiale, oralmente, con enfasi sul profilo di rischio e sugli obiettivi del cliente più che su costi e alternative. In parallelo, molte reti continuano a proporre fondi di casa o di partner con cui hanno accordi commerciali.
A livello europeo è in corso da anni un dibattito sulle retrocessioni: diversi Paesi hanno limitato o vietato i pagamenti di incentivo, favorendo modelli a parcella. L’Italia è rimasta su un impianto ibrido, dove gli incentivi sono ancora diffusi e la consulenza “veramente indipendente” è minoritaria.
La raccomandazione più semplice è anche la più efficace: ottenere una seconda opinione esterna e indipendente prima di affidare nuovi fondi. Associazioni di consumatori e consulenti fee-only possono fornire check-up gratuiti o a basso costo del portafoglio, quantificando i costi reali e verificando se esistono alternative equivalenti a minore spesa. Confrontare un portafoglio “caro” con un equivalente “low-cost” è un esercizio che spesso rivela differenze sorprendenti tra la narrativa commerciale e la realtà dei numeri.
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